Link preghiere a Maria di Don Tonino Bello
Maria, donna del pane
Maria, donna del popolo
Maria, donna senza retorica
Maria, donna di frontiera
Maria, donna che conosce la danza
Maria, donna dell’attesa
Maria, donna coraggiosa
Maria, donna del Sabato santo
Maria, donna innamorata
Maria, donna del terzo giorno
Maria, donna gestante
Maria, donna del riposo
Maria, donna conviviale
Maria, donna accogliente
Maria, donna del vino nuovo
Maria, donna del piano superiore
Maria, donna del primo passo
Maria, donna del silenzio
Maria, donna missionaria
Maria, donna obbediente
Maria, donna elegante
Maria, donna di parte
Maria, donna di servizio
Maria, donna dei nostri giorni
Maria, donna del primo sguardo
Maria, donna vera
Maria, donna dell’ultima ora
Santa Maria, compagna di viaggio
Maria donna dei nostri giorni
Monsignor Antonio Bello (affettuosamente chiamato don Tonino) è stato vescovo di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi dal 4 settembre 1982 fino alla morte avvenuta il 20 aprile 1993. Nato ad Alessano (Lecce) il18 marzo 1935, ordinato prete 1’8 dicembre 1957, fu educatore in seminario, direttore dell’Ufficio pastorale diocesano di Ugento e parroco a Tricase, sempre nel Leccese. Per alcuni anni ha condiviso la sua abitazione con famiglie di sfrattati: ha preso posizione a favore dei marocchini che abitavano nella città di Ruvo e li ha ospitati in alcuni appartamenti del vescovado. Nella stessa città è sorta una comunità di accoglienza, la Casa, per tossicodipendenti, realizzata con il sacrificio di tutta la diocesi.
Non a caso sotto lo stemma episcopale c’è un versetto del Salmo 34: «Gli umili ascoltino e si rallegrino». Ha pubblicato: Sotto la croce del Sud (note in margine a un viaggio pastorale tra gli emigrati molfettesi in Australia), Insieme, alla sequela di Cristo, sul passo degli ultimi (progetto pastorale), Alla finestra la speranza. Lettera di un vescovo (Edizioni Paoline, 1990), Scrivo a voi…, La stola e il grembiule. Settimanalmente ha scritto sul periodico diocesano Luce e vita, e anche così comunicava con la gente, manifestando grande sensibilità e attenzione alla realtà e ai bisogni delle persone. Le lettere qui raccolte nascono da quel dialogo settimanale. Dal novembre 1985 fino alla morte monsignor Bello è stato Presidente nazionale di Pax Christi, movimento internazionale che si propone di educare alla pace e di cercare le strade concrete perché dal mondo sia bandita la violenza.
La confidenza di un vescovo
«De Maria numquam satis», recita da secoli una pia antifona. Quanto infatti è stato scritto, poetato, narrato, cantato sulla madre di Gesù! Da Jacopone a Péguy, a Claudel, a Eliot da Dante a Lope de Vega, a Bernanos, a Hopkins; da Petrarca a Turoldo. Per non parlare dei santi (Bonaventura, Bernardo, Bernardino) e degli oscuri o anonimi, che con ingenuità, rozzezza o retorica hanno invaso di lodi la “Donna del Paradiso”. Eppure non basta («numquam satis»), non basterà mai. Così è stato, incontenibilmente, anche per Tonino Bello, vescovo di Molfetta. Che ci offre questi 31 capitoletti – Maria, donna dei nostri giorni – a cui diamo il benvenuto fra i nostri cuori mariani.
Nel parlare di Maria (anzi, a Maria) l’Autore ha fatto uso dei due attributi di cui lo conosciamo dotato: soavità, tenerezza, stupori di vibrante poeta; ma poi forza, passione, coraggio anticonformista. Virtù, codeste ultime, che più me lo hanno fatto stimare e amare per la generosa baldanza con cui per anni egli ha denunziato e affrontato le infamie della nostra società; le fiacchezze e i ritardi della stessa Chiesa, sulle quote di una protesta non frequente nei nostri pastori; per la sua opzione radicale a favore degli ultimi, l’impegno per la pace e la nonviolenza.
Quali sono i meriti di questo libro, il solo “diritto” d’infoltire la sconfinata produzione mariologica?
L’originalità e l’ arditezza, intanto, di certe ipotesi, dentro un “vangelo apocrifo” (ma non inverosimile) della Vergine. Che, ad esempio, lei pure sia andata a deporre il figlio dal legno e gli abbia «composto le membra nella pace della morte». Ma prima che attorno alla croce abbia danzato i suoi «lamenti di madre implorando il ritorno del sole». E – sempre sul tema della Passione – l’altro assunto che Cristo spirando abbia reclinato il capo su quello di Maria e lei «ritta sul patibolo, forse su
uno sgabello di pietra», sia diventata così «il suo cuscino di morte». Ancora, quella “Maria, donna del terzo giorno” che avrebbe assistito prima delle altre donne non all’apparizione del Risorto, ma all’evento segretissimo della Risurrezione. E infine l’altra, che esplica un’incontenibile maternità con lo stesso Giuda, nell’uscir di casa per distoglierlo dalla decisione del suicidio e che dopo la deposizione di Gesù va a deporre dall’albero anche lui e gli compone le membra nell’ultima pace. Autentiche “invenzioni” da narratore visionario, o più da ispirato propositore di brevi epiche.
Ma poi in questo scriver libero e svariante l’Autore si apre ad ammaestrativi squarci di catechesi («donaci la certezza che chi obbedisce al Signore non si schianta al suolo, come in un pericoloso spettacolo senza rete, ma cade nelle sue braccia»; in “Maria, donna obbediente”); o – da psicologo – inventa per noi quel santuario alla “Madonna della paura”, dove ci rifugeremmo tutti, «perché tutti, come Maria, siamo attraversati da quell’umanissimo sentimento che è il segno più chiaro del nostro limite».
Forse – e per antinomia -la dimestichezza con la Madonna, creatura di mirabili silenzi, ha dotato Tonino Bello di un’eloquenza (e intendo qui un’eloquenza di scrittura) fluida e anche letterariamente magistrale. Si legga, giusto in tema di silenzio, il pezzo di bravura dove sono paesaggisticamente ambientati i “silenzi” di Maria nei suoi appuntamenti con Dio; in “Donna del vino nuovo” quel preambolo sulle botti, le cantine e gli odori del mosto in allacciamento al tema enotrio di Cana; o, infine, nella difficoltà di trascegliere, fra le altre e tante espressive gemme, quella dossologia rivolta a “Maria, donna del Sabato santo”.
Che prima d’essere un formale gioiello, è per me il profondo messaggio e il più prezioso dono di queste pagine: quel trasmetterci, nel tramite ancora della Vergine, il giubilo della Pasqua, chiamandoci a un quasi dionisiaco ottimismo. «Che cosa faranno gli alberi stanotte, quando suoneranno a stormo le campane? Le piante del giardino spanderanno insieme, come turiboli d’argento, la gloria delle loro resine? E gli animali del bosco ululeranno i loro concerti mentre in chiesa si canta l’Exultet? Come reagirà il mare, che brontola sotto la scogliera, all’annuncio della Risurrezione? L’angelo in bianche vesti farà fremere le porte anche dei postriboli? Oltre i cancelli del cimitero, sussulteranno sotto il plenilunio le tombe dei miei morti? E le montagne, non viste da nessuno, danzeranno di gioia attorno alle convalli?».
Ed è in quell’ora che Maria a noi figli ripeterà che «non c’è croce che non abbia le sue deposizioni. Non c’è amarezza umana che non si stemperi in sorriso. Non c’è peccato che non trovi redenzione. Non c’è sepolcro la cui pietra non sia provvisoria sulla sua imboccatura. Anche le gramaglie più nere trascolorano negli abiti della gioia. Le rapsodie più tragiche accennano ai primi passi di danza. E gli ultimi accordi delle cantilene funebri contengono già i motivi festosi dell’alleluja pasquale». Ma in codesto “parlare alto” l’Autore estemporaneamente infiltra un “dir quotidiano” in confidenziale abbandono.
Eccolo allora a coinvolgere femminili creature della sua cerchia diocesana (Antonella, Patrizia, Daniela, Rossella) con le loro piccole sorti domestiche, le tribolazioni e letizie messe in parallelo con Maria. Così in quel penultimo capitolo (“Maria, donna dei nostri giorni”), dove la Vergine è quasi surrealmente trasfusa e mimata nelle mille donnucce del lessico familiare e stradale. Contemporanea; vicina di casa, compagna di scuola e di bottega: «molfettese puro sangue».
Giacché la virtù forse più singolare del libro è questa d’intarsiare per noi una Madonna fatta di levità e teologali trasparenze, misticamente volitante sulle anime nostre, con le valenze di una creatura pienamente vissuta come noi nel tempo, nel frantume dei giorni, nel destino effimero ma pregnante della propria corporeità e pur anche – sì del proprio apparire e adornarsi.
Allora il Nostro non esiterà a proclamare e a celebrare, come se l’avesse lui vista e goduta, la vocazione alla danza di M aria, la sua femminile bellezza e ancora – con fantasiosi fraseggi – la sua eleganza.
Sulle ali di questi slanci, nelle pulsioni di queste “libertà” ecco che il vescovo, lo scrittore Tonino Bello, ci appare, a lettura conclusa, nella sua aperta dimensione mariologica. Cioè non agiografo; neppure laudese, cantore, nel senso più melico e lirico; e tuttavia penetratore e aruspice, entro sfere psicologiche e inedite, del suo altissimo soggetto.
Non “devoto” ma più innamorato, dirò, nella pienezza totalizzante di questo sentire. E in tale castissima “cotta” per Maria egli va umilmente, ludicamente ad affratellarsi a quello straordinario personaggio di Anatole France – Le jongleur de N otre Dame -; il saltimbanco che, fattosi frate, altro culto non volle offrire alla Vergine che il danzare dinanzi alla sua immagine, traducendo in capriole e salti il proprio esuberante amore.
Luigi Cantucci marzo 1993